Fulvio
Grimaldi per L’Antidiplomatico
Eurocentrismo
de sinistra
GAZA (NON
SOLO): QUELLI DEL SI, MA
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Alla
nutrita Assemblea Nazionale convocata sabato scorso al cinema Aquila di Roma
dalla Rete dei Comunisti, si è discusso di Medioriente.
Incidentalmente
e fuori dal contesto di questo articolo, mi permetto una considerazione. Nel
dibattito ha avuto un ruolo anche l’evento nazionale contro guerra e Nato e per
la Palestina previsto per il 21 giugno, con il nodo della presenza,
nell’occasione, di due manifestazioni su piattaforme in parte divergenti. Si
vedrà se si addiverrà a un’intesa. Alla discussione aggiungerei il dato che risultano
riuscite e imponenti, per positiva risonanza pubblica, le manifestazioni romane
per la Palestina che hanno visto in un unico corteo due componenti fortemente
divise tra loro. Soluzione che potrebbe proporsi anche per il 21 giugno.
Nel
corso delle quattro ore di assemblea e di una trentina di interventi, si è
incessantemente parlato, in toni vuoi indignati, vuoi accorati e dolenti, fin
nei più raccapriccianti dettagli, della tragedia di Gaza. Giustamente qualcuno
ha rilevato l’esitazione, se non l’assoluto rifiuto, nella sfera
politico-mediatica, a pronunciare la parola genocidio. A fronte della fondata
osservazione, va tuttavia rilevato che un’analoga esitazione, se non un
rifiuto, si sono verificati rispetto al termine “Resistenza”, praticamente
scomparso. Siamo stati solo in due, un palestinese e io, a utilizzarlo. DI
Hamas, poi, neanche a parlarne.
Si
sarà trattato di accidente casuale, non causale per carità, ma tant’è. E fa
riflettere. Su un fenomeno che è di vasta scala e di vasta portata.
Dico
subito che, per alcuni, dietro al ritegno di evidenziare il ruolo di Hamas, che
pure è la rappresentanza politica e militare della maggioranza dei palestinesi
dalle elezioni del 2014, confermata dai sondaggi attuali, c’è l’idea che senza
Hamas Gaza avrebbe la pace. Idea alimentata dalla propaganda sionista che
proclama la sua guerra essere solo mirata all’eliminazione di Hamas.
La
terra bruciata che Israele sta compiendo in larghe parti della Cisgiordania,
che dichiara di voler annettere e dove non pare esserci una forte presenza di
Hamas, da sola smentisce l’assunto. Basterebbe ricordare due anni di
ininterrotte ed omogenee dichiarazioni del governo Netaniahu (fatte proprie
dall’80% degli israeliani). La pratica genocidaria applicata a Gaza, con
particolare predilezione per bambini e donne, ospedali, scuole, moschee, depositi
e manifatture di viveri, acquedotti e luoghi di rifugio, concretizza le
ripetute affermazioni di Netaniahu, dei suoi ministri e di Trump. Anche se
Hamas sparisse e gli ostaggi fossero liberati, la procedura verrebbe portata a
termine: soluzione finale. Che è quella di rimuovere dalla Striscia, morti o
vivi e per sempre, tutti i palestinesi, inibendo ogni possibilità di ritorno.
Quindi,
di cosa stiamo parlando?
Di
passaggio, va rilevato che alle parole di cui si preferisce evitare l’uso,
anche da parte di esponenti del “popolo nostro”, con evidenti ricadute sul
popolo tutto, corrispondono parole di cui, invece, si pratica l’uso, per alcuni
convinto, per altri stereotipato e a pappagallo. Ne emergono due impieghi. Una
in riferimento alla guerra mediorientale, “Diritto alla difesa”, in relazione a
quanto farebbe Israele quando mena colpi all’impazzata, o li promette, ai paesi
vicini. Meme poi diventato il mantra per le attività belliche, o di
preparazione bellica, dell’Unione Europea governata, per conto degli armieri UE
e USA, da Ursula von der Leyen
L’altra
è altrettanto pervasiva, autorevole ed autoritaria e guai a contestarla: “Invasione”,
o il suo equipollente più irsuto, “aggressione”. Del martellante ripetere il
“diritto di Israele di difendersi”, a copertura della più sanguinaria e
orripilante distruzione di un intero popolo, condotta in piena vista del mondo,
cosa mai vista, abbiamo detto e siamo consapevoli tutti, compresi gli ipocriti
che della frase fanno uso.
“Invasione”
e “aggressione” è l’unico modo in cui il volgo e l’inclita devono percepire e
giudicare gli eventi di Ucraina. Come risulta esplicito dall’informazione
generalista che riceviamo ogni giorno, dal febbraio 2022, entrata delle truppe
russe, e che è cardine di ogni pronunciamento dei nostri politici.
Ricordo
il mio breve, e, come si usa da Floris, “controllato”, scambio con Pierluigi
Bersani, già comunista e autorevole segretario del PD. Il metaforico veterano
di una sinistra che fu, aveva concluso la sua perorazione sul diritto di
Zelensky a difendersi dall’aggressione russa del 22 febbraio 2022. Io avevo poi
provato di opporre alcuni dati di causa ed effetto rispetto a quell’
“aggressione”.
Tipo
il sanguinoso colpo di Stato fatto fare a Maidan da Obama e Hillary Clinton a
reparti politici e militari nazisti, con il risultato della cacciata di Victor
Yanukovich, premier e poi presidente, democraticamente eletto, dal 2004 al 2014
e che coltivava pari aperture a est come a ovest. Tipo otto anni di
bombardamenti e massacri di ucraini russofoni nel Donbass e la strage dei
bruciati vivi dai nazisti a Odessa.
Quale
fu la reazione dell’illustre politico, prima del successivo cambio di indirizzo
e tema del conduttore? Una scrollata di spalle, un inarcamento delle
sopracciglia e la sentenza perentoria e conclusiva, condita da un sorriso di
sufficienza: “Ma questa è Storia”.
Il
che è del tutto sufficiente per dare alle parole in questione, e al loro
utilizzo nella contingenza del presente, tutto il loro “valore”. A questo
proposito permettetemi di tradurvi questi brevi versi di Evgenij Aleksandrovič
Evtušenko
“Credi
tu che i russi vogliano la guerra? / Interroga il silenzio che lì tace nel
vasto campo / nel boschetto dei pioppi. / Chiedilo alle betulle lungo il rivo /
Là dove giace, nella sua tomba / quel soldato russo, a lui devi chiederlo! / Ti
darà la risposta suo figlio: / pensi tu, che i russi vogliano la guerra?”
Nell’assemblea
nazionale di cui sopra, Franco Russo, mio compagno e autorevole contemporaneo
negli anni ’68-’77 (definiti di “piombo”, da intendersi, però, come piombo
finito nei corpi di una generazione che non ci stava), ha espresso una
ricorrente preoccupazione. Ha rilevato, con mestizia e apprensione, come
l’opposizione agli eventi funesti del capitalismo colonial-imperialista in
Medioriente, continuasse a mancare una base sociale all’altezza del giusto e
doveroso.
Mi
sono chiesto se ciò non fosse dovuto a quella malattia della Sinistra di massa,
apparentemente quasi congenita per quanto diffusa e ostinata, che non si può
chiamare altro che eurocentrismo e che rasenta a volte il pur vigorosamente
deprecato suprematismo. Vi sono firme e pubblicazioni per le quali la
definizione di “sinistra” riveste entrambi i significati della parola. Sono
quelle che giubilano per la Palma d’oro di Cannes all’iraniano Jafar Panahi, o
per la vittoria israeliana in un qualche concorso canoro, o che descrivono con
giambi e ditirambi l’evento in cui, a Bracciano, si è manifestata la Premio
Nobel iraniana Shirin Ebadi. Tanto per fare due esempi rappresentativi ed
emblematici. Ma vale per i dissidenti rispetto a molte realtà invise al potere
nel mondo in cui ci troviamo.
Conosco
quelle posizioni - c’ero alla conferenza della Ebadi, ho visto i film dei
registi iraniani, ho udito le canzoni - e come esse siano congeniali a una
presentazione della realtà che vorrebbe reclutare le opinioni pubbliche alla
visione delle cose – e conseguenti operazioni politico-militari – di un
Occidente, di un’Europa, perfino di un’America a Stelle e Strisce, pur sempre
di tradizioni e sostanza liberaldemocratiche. Con di fronte oscurantismi
religiosi repressivi e regimi di dittatori, rispettivamente da illuminare, con
le buone o le cattive, o da abbattere. Visto che minacciano l’umanità con armi
di distruzione di massa, seppelliscono in fosse comuni i loro avversari
(Gheddafi), o li torturano e uccidono nelle carceri (Assad). Strumenti
democratici per affronarli: rivoluzioni colorate, sanzioni e guerre.
Ho
percorso le strade e praticato gli incontri, tra Cuba e Venezuela, Nordirlanda
e Serbia, Vietnam e sfera afro--mediorientale, che mi hanno riscattato dal rischio
di un’ideologia aprioristicamente contro, perché superiore e nostra, facendomi
testimone di una realtà delle cose opposta a quanto si vuole si sappia in
Occidente e avvallata dai pregiatissimi dissidenti.
Qui
non è il caso di dilungarsi in pur indispensabili approfondimenti
socio-culturali di civiltà e tradizioni che, date le premesse storiche diverse,
si sono permessi di seguire itinerari ed obiettivi non in linea con quanto a
noi, da Montesquieu a Tocqueville e Schmidt, viene pro-im-posto, come modo di
stare insieme e governarci.
Qui
è il fortissimo caso di porre a base della decostruzione di un nostro placido
allineamento con l’industria occidentale delle mistificazioni pro domo sua,
da 2000 anni la più potente del mondo. Qui si impone, prima di profferire
giudizi, la messa in questione, corredata da evidenze, di alcune chiavi di
volta che reggono l’edificio della menzogna strategica.
Da
inviato in Serbia del quotidiano Liberazione, durante la guerra NATO di D’Alema
e Mattarella, mi si rimproverò di aver usato, in un’intervista fattami dal
quotidiano del Partito Socialista, il meme: “Serbi, non servi”, con
riferimento a Roma e alla Nato. Al mio ritorno trovai che parecchi dei miei
servizi da Belgrado erano stati cestinati, perché “troppo filoserbi”.
L’intervista che mi diede, prima di essere arrestato e mandato a morire
all’Aja, Slobodan Milosevic, definito dittatore a casa nostra ed effettivamente
presidente democratico di un paese con ricche e zannute opposizioni
politico-mediatiche, fu respinta dal giornale perché “non possiamo appiattirci
su Milosevic” (ma pubblicato poi dal Corriere della Sera!).
Analogamente,
i miei reportage quando ero uno dei pochi e preziosi corrispondenti da Baghdad
durante l’aggressione del 2003, furono relegati dallo stesso quotidiano
nientemeno che nella posta dei lettori. Non doveva figurare come giornalista
contrattato uno che metteva troppo in rilievo la bestialità dei bombardamenti
Nato su una Bagdad prospera e civile, o il carattere, deontologicamente
pervertito, di “embedded” degli inviati al seguito delle truppe USA.
Oggi,
su una Serbia non ancora del tutto normalizzata e sui serbi riottosi di quella aberrante creazione Nato che è la
Bosnia-Erzegovina, federata a regime UE improntato all’apartheid, resta perciò
attiva una criminalizzazione collettiva, radicata in terreni totalmente
inquinati da False Flag e menzogne, ma ancora formicolante nelle sinistre
ambosensi di cui sopra.
Si
parte dalla strage di “civili inermi” a Racak, in Kosovo, proiettata nel mondo
dagli organi della KFOR (Nato) per giustificare il successivo attacco alla
Serbia. Poi inutilmente identificata da anato-patologi finlandesi dell’ONU come
risultato di uno scontro tra soldati serbi e terroristi UCK travestiti da
civili e sparati alla nuca e torturati quando cadaveri. E per segnare gli
eventi futuri, si torna e ritorna a Srebrenica. Grande e pesante operazione,
codesta, con cui tenere sotto scacco i serbi, in ispecie quelli della
Repubblica Srpska nella surreale federazione croato-serbo-bosniaca, riottosi
alle prevaricazioni croato-musulmane.
Su Srebrenica,
durante la guerra civile, innescata dalla strategia USA-UE di frantumazione
della Jugoslavia socialista, ci si ripete con enfasi da allora che 8.000 civili
sarebbero stati uccisi a freddo da un plotone comandato dai serbi Mladic e
Karadzic. Due imputati, di conseguenza, del solito processo-canguro dell’Aja.
Numerose e approfondite inchieste hanno accertato che non di esecuzione di
civili si sarebbe trattato, ma di scontro armato tra forze serbe e forze
bosniache, con un numero di vittime infinitesimale rispetto a quello
conclamato. Particolare grottesco: numerosi nominativi delle vantate vittime
sono poi ricomparsi nelle liste elettorali bosniache. Eppure ancora oggi si fa
ogni anno un gran celebrare internazionale della “giornata di Srebrenica”. Dunque,
dagli ai serbi è sempre consentito.
Oggi
lo stesso meccanismo è applicato all’operazione di Hamas il 7 ottobre 2023. A
dispetto che decine di ricerche e inchieste, anche israeliane, hanno accertato
che la maggioranza delle vittime è stata determinata dall’intervento caotico e
impreparato (i centri di comando dell’IDF erano stati neutralizzati da Hamas)
delle truppe israeliane prese di sorpresa. Che l’operazione di Hamas prevedeva
la cattura di ostaggi, da cui ottenere la liberazione di prigionieri
palestinesi, e non l’uccisione di massa dei coloni. Che la riduzione in macerie
degli edifici degli insediamenti non poteva che essere determinata da bombe e
missili dei tank ed elicotteri israeliani, dato che Hamas non disponeva che di
armi leggere. E, infine, comandanti israeliani hanno ufficialmente ammesso che
era stata adottata la Direttiva Hannibal, quella che impone di uccidere anche
gli ostaggi insieme a chi li porta via.
Resta
a tuttoggi, nella pubblicistica e nelle convinzioni della Sinistra perbene,
l’inevitabile e ricorrente riferimento alle “atrocità” di Hamas, alle
decapitazioni di neonati e agli stupri di massa, alle 1.200 vittime civili (in
effetti poco più di 600 e in gran parte militari da fuoco incrociato e civili
da fuoco amico).
E,
come l’ineluttabilità di Srebrenica, o dell’11 settembre, madre di tutte le
False Flag, non mancano mai alcuni punti fermi. L’associazione della Resistenza
palestinese alla parola “terrorismo”, anziché la sua ovvia applicazione allo Stato
sionista, oppure l’epiteto di “Zar” per Putin. Sono particolari di una
propaganda che ci pervade peggio di un sedicente virus Covid, o di un presunto
cambio climatico da noi e dai nostri nonni provocato. E che si insinua tra i
gangli delle coscienze sinistre e li si sedimenta e prospera. E produce il plauso,
per esempio, a Premi Nobel e Palme d’Oro.
Come
anche la timidezza rispetto alla parola “Resistenza” e l’assenza del nome Hamas
in un’assemblea tracimante di solidarietà umana per Gaza.